Almeno
una volta nella vita ognuno di noi ne è stato colpito. Molti di noi più e più
volte. Molti di noi, regolarmente e sistematicamente. La sindrome da mandolino
è una brutta bestia. Una di quelle cose che ha parecchio a che fare con la
nostalgia, con i ritorni al passato, con le crisi da “come sarebbe stato se…”.
Qualche
giorno fa due amiche parlavano reciprocamente delle proprie vicende
sentimentali. Diciamo che una ne parlava più dell’altra. Con una certa
decisione ribadiva un concetto tipo “con lui è finita, stavolta per sempre.
Però – aggiungeva – io penso continuamente a lui, e il mio desiderio più
profondo, nonostante tutto, è che lui torni da me”.
Funziona
così nel novanta per cento dei casi: una storia finisce, uno dei due per
ragioni di orgoglio (o semplicemente perché tenta di preservarsi da una
eventuale sofferenza) dice all’altro di sparire, di uscire dalla sua vita, di
non farsi mai più vedere né sentire. Quante volte sarà capitato? Trenta,
quaranta ultimatum con relativa scena da film fatta di urla e di frasi
pronunciate con convinzione. Passa il tempo: i dissapori si dissolvono, ci si
pente delle cose dette, di quelle non dette, dei gesti non compiuti. Si medita
il ritorno sui propri passi, ed infine, in una maniera o nell’altra, ci si rifà
vivi con la persona con la quale eravamo sicuri di voler chiudere. QUESTA E’ LA
SINDROME DEL MANDOLINO: DOVETE IMMAGINARLA IN UNA MANIERA UN PO’ RIDANCIANA E
IRONICA, COME UNA SCENA IN CUI DOPO ESSERSENE DETTE DI TUTTI I COLORI E ESSERSI
CHIESTI DI ANDARSENE VIA PER SEMPRE, SI IMPUGNA UN MANDOLINO E SI VA SOTTO LA
FINESTRA DELL’ALTRO, A CANTARE UNA CANZONE PER CONVINCERLO/LA A TORNARE. La
sindrome del mandolino: ovvero, intimare ad una persona di sparire dalla nostra
vita, e pregare Iddio che ritorni il prima possibile perché senza di lei/lui ci
manca quasi un braccio.
Non
è importante se si è uomini o donne: la crisi del mandolino colpisce un po’
tutti, e le metodologie di ri-approccio sono le più svariate. Si utilizzano i
social network per rifarsi vivi, oppure (se si ha veramente molto coraggio) si
prende in mano il telefono, si riesuma dai cassetti nascosti quel numero di
telefono che avevamo cancellato dalla nostra rubrica giusto per non cadere
nella tentazione continua di richiamarlo, e si compone quel numero, sapendo già
che comunque andranno le cose, dalla conversazione che ne seguirà, dipenderà la
nostra rovina.
In
taluni casi, la sindrome del mandolino non prevede necessariamente che siamo
noi ad andare sotto casa dell’altro a suonargli la nostra canzone preferita. A
volte a tornare sono “gli altri”, e noi, ben contenti che abbiano deciso di
farlo, siamo pronti a riaprirgli le porte del cuore… e non solo quelle.
Dal
punto di vista psicologico e morale, la sindrome del mandolino è quella “malattia”
che precede alla nostra auto-distruzione. Infatti, se viviamo sperando che la
persona con cui abbiamo chiuso torni nelle nostre vite, ci stiamo
automaticamente scavando la fossa da soli. Noi lo sappiamo che l’altra persona
è il male, il male assoluto da cui fuggire e da cui liberarsi, però, nonostante
tutto, per uno strano meccanismo di sfida con noi stessi (che giustifichiamo in
maniera palese con la parola amore), accettiamo e anzi, speriamo che torni.
E
sperando, a volte nella sofferenza ci mettiamo a ripercorrere quelle strade in
cui potremmo incontrarci, quei posti che magari un tempo frequentavamo insieme,
quelle situazioni in cui non possiamo sfuggire. Perché possiamo sfuggire a ciò
che diciamo agli altri, a ciò che falsamente raccontiamo a noi stessi, possiamo
mentire dicendo che nella nostra vita ci meritiamo di meglio, qualcuno che non
ci provochi sofferenza, qualcuno che non ci faccia piangere e che non distrugga
gratuitamente le nostre vite...
…ma
ciò che davvero vorremmo è solo un suo ritorno.
…anche
se sbagliato, anche se senza un senso.
PERO’ (e badate bene che questa settimana finisco con
un PERO’) non credete nei ritorni: la sindrome del mandolino è come la febbre.
Si abbassa quando riusciamo a debellare il virus.A lunedì
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